Da segretario della federazione giovanile comunista a lobbista di armi e collaboratore di EY uno di quei templi del capitalismo d’assalto che sono i 4 big della consulenza. Ognuno valuti come ritiene la lunga parabola professionale di Massimo d’Alema puntellata da un’infinita di incarichi, da presidente del Consiglio a presidente del Copasir (il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, in sostanza l’interfaccia di congiunzione tra politica e servizi segreti). Certo è che, proprio in ragione di questo trentennale presidio delle stanze che contano, stupisce l’ingenuità con cui l’ex leader del Pd si sarebbe fatto ingannare da un nell’ambito di un’operazione per la vendita di armi alla Colombia (sommergibili, navi e aerei prodotti dalle italiane Leonardo e Fincantieri). Sulla vicenda la procura di Napoli ha aperto un’indagine, a seguito di un esposto presentato dall’Assemblea parlamentare del Mediterraneo (APM), riguardante Emanuele Caruso e altre persone che sarebbero invece coinvolte come sedicenti intermediatori del Governo italiano nel Paese sudamericano attraverso documenti falsi.

Agli atti figura anche la registrazione audio di una conversazione alla quale prende parte anche D’Alema che parla con “don Antonio” soprannome Edgar Fierro, ex-paramilitare condannato a 40 anni e poi graziato. (L’audio integrale è stato pubblicato da Il Fatto Quotidiano). In un’intervista rilasciata oggi al Corriere della Sera, D’Alema spiega con candore: “Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore. Mi hanno detto che era un senatore. Non c’è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela”.

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Un insolito mea culpa per un leader poco avvezzo a esercizi di “Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente. Sono anzi tra quelli che hanno più interesse a fare chiarezza su tutti i punti oscuri di questa storia, come la registrazione illegale”, aggiunge l’ex presidente del Coniglio nell’intervista spiegando che “Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente”. Alla domanda su come sia stato coinvolto in questa storia l’ex segretario del Pds spiega: “Si è presentato da me un imprenditore salentino che conoscevo da anni, Giancarlo Mazzotta. Mi dice che conosce due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia”.

Forniture militari? “Anche. Faccio questo lavoro, consulenza e assistenza a imprese italiane per investimenti all’estero, che a volte prevede l’avere rapporti con i governi”. D’Alema descrive insomma per filo e per segno l’attività del lobbista. Ma nel momento in cui gli viene chiesto se sia un lobbista si indispettisce. “Questo tipo di attività viene svolto nel mondo da numerosi ex esponenti politici, che di solito vengono ringraziati, non fucilati alle spalle”. Come Matteo Renzi e Gerhard Schroeder (ex cancelliere tedesco finito nel cda del colosso energetico russo Rosneft, ndr)? “Renzi è attualmente senatore, io non sono senatore dal 2013. Schroeder lavora per una società russa, io per aziende del mio paese. Non è la stessa cosa”. C’è poi la questione dei compensi che avrebbe la maxi commessa con la Colombia.

Nella telefonata agli atti D’Alema parla di 80 milioni di euro di provvigione. Nell’intervista al Corriere chiarisce: “Ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere, in termine di consulenze, promozione commerciale e assistenza legale, una massa si investimenti come quella di cui si parlava. Parliamo di un lavoro che può durare 8 anni, non il tempo di una firma. Quindi penso che una parte sarebbe andata a Robert Allen Law, che avevo segnalato per l’assistenza legale e di promozione; mentre i colombiani sollecitavano una partnership loro, com’era giusto che fosse”. Che cosa avrebbe guadagnato D’Alema? La risposta: “La mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell’energia, delle infrastrutture in rapporto alle aziende private con cui collaboro. Con le aziende pubbliche non ho contatti”. Con quali aziende private? “Se permette, le lascerei fuori”, conclude D’Alema.

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